Imparare dai migliori: Shane Stevens

Shane Stevens Io ti troverò

Tratto da Io ti troverò di Shane Stevens (Fazi Editore, 2016). Titolo originale: By Reason of Insanity (1979). Biografia dell’autore

“In uno di quei giorni, per essere esatti il 2 maggio 1960, a San Quentin un condannato a morte fu condotto alla camera a gas. Era scortato da quattro guardie. Due di loro lo assicurarono a una delle due sedie metalliche, quella che stava sulla destra nella piccola stanza d’acciaio. Lo stetoscopio fu collegato. Il capo delle guardie augurò buona fortuna al condannato.

Il volto dell’uomo non mostrò alcuna emozione, quando le guardie uscirono, dopo aver sigillato la porta metallica dall’esterno e dato l’ultimo giro alla ruota dentata della serratura. Lui continuò a guardare i sessanta testimoni raccolti fuori dalla cella ottagonale che lo osservavano attraverso cinque finestre blindate. Le ultime preghiere erano state recitate ed erano state pronunciate le ultime parole per Caryl Chessman. Per dodici anni aveva lottato nei tribunali della California e presso la Corte Suprema degli Stati Uniti per impedire che quel giorno arrivasse. Ora la lotta era finita. Aveva perso e, a trentotto anni, Caryl Chessman attendeva la propria morte.

Dietro la camera a gas, in una stanza più spaziosa, al primo piano della casa della morte, una mano aprì una valvola al segnale del direttore del carcere. Erano le 10,03. Da un contenitore sotto la sedia a gas, le pasticche di cianuro precipitarono subito nel recipiente con la soluzione di acido solforico. In pochi secondi, le esalazioni letali dell’acido raggiunsero il condannato, riempiendo la stanza col tipico odore di mandorle amare e di fiori di pesco. Il corpo si tese contro le cinghie, la testa scattò all’indietro. Col cervello ormai privo di ossigeno, scivolò lentamente nell’incoscienza e nella morte. Alle 10,12 la dichiarazione ufficiale di morte non creò alcun trambusto a parte gli inevitabili dettagli della ripulitura. Nel carcere di San Quentin, al di sopra della camera a gas conosciuta come la Stanza Verde per il colore delle sue pareti, la vita continuò più o meno come al solito.”

L’incipit

Qui colpisce la descrizione, asettica quanto l’operazione stessa, dell’esecuzione di un condannato. Non vi è nulla di brutale, in termini quasi documentaristici descrive l’operazione meccanica dello spegnimento di una vita.

Il lettore costruisce un’immagine mentale della scena, una sequenza cronologica degli avvenimenti, in cui gli elementi più raccapriccianti sono lo stetoscopio “collegato” al corpo del condannato, la capsula di cianuro che cade nella soluzione di acido solforico per mano di un uomo senza volto e i sessanta spettatori che assistono a quello spettacolo di morte.

Seguono una dichiarazione ufficiale di decesso, con l’orario preciso diligentemente annotato, e la tragica indifferenza del mondo all’esterno della Stanza Verde.

Rimane un dato sconcertante, che passa quasi inosservato: la morte giunge in sole sessantanove parole, ma Caryl Chessman impiega nove minuti a morire.

Il tono della voce narrante

Una scelta fondamentale fin dall’inizio. In questa fase molti autori scivolano nella banalità o nell’ostentazione. Stevens rimane invece coerente, lucido, presente ma discreto, semplice ma efficace, capace di evocare suggestioni visive molto puntuali. Questa è la frase di apertura del primo capitolo:

“In primavera, la nebbia che riempie l’aria come un boato silenzioso sulla baia sembra bagnare di mercurio San Francisco. Sfuggente, attraversa ogni cosa senza modificarla e senza lasciare traccia. Ma avvolge tutto ciò che tocca, trasformando, sebbene solo per poco, quel che è naturale in qualcosa di mistico. Questo è più evidente a nord della città, lungo quelle propaggini di costa che si estendono nella Baia di San Francisco. È lì che una nebbia primordiale opera al meglio la sua magia, ammantando le città luccicanti, le baie e la campagna. Qui nascono migliaia di leggende popolari. Ed è proprio qui che, come un cuore misterioso, spunta il penitenziario di San Quentin. Inaccessibile e arroccato su nere rocce, il carcere s’innalza dalla foschia del terreno in un paesaggio di pietre torturate. Spesso, nelle tenebre delle prime ore del giorno, San Quentin appare come un faro che indica la fine del mondo.”

In seguito il narratore (onnisciente) entra nelle vite e nei pensieri dei personaggi molto a fondo, lasciando a loro, e solo a loro, il compito di rivelare con spietata dovizia di particolari l’orrore di cui è impregnata la loro esistenza.

Io ti troverò (il titolo italiano non gli rende giustizia) è a mio parere un capolavoro, e Shane Stevens (chiunque egli fosse) dimostra che la buona scrittura non è sfoggio di abilità virtuosistiche ma al pari della buona cucina è sostanza ed equilibrio, l’esatta proporzione delle parti.

Prossimo articolo: Raymond Queneau

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