Imparare dai migliori: Italo Calvino

Italo Calvino Marcovaldo

Tratto da Marcovaldo, di Italo Calvino (Mondadori, 2015). Biografia dell’autore.

Il vento, venendo in città da lontano, le porta doni inconsueti, di cui s’accorgono solo poche anime sensibili, come i raffreddati del fieno, che starnutano per pollini di fiori d’altre terre.

Un giorno, sulla striscia d’aiola d’un corso cittadino, capitò chissà donde una ventata di spore e ci germinarono dei funghi. Nessuno se ne accorse tranne il manovale Marcovaldo che proprio lì prendeva ogni mattina il tram.

Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di città: cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, per studiati che fossero a colpire l’attenzione, mai fermavano il suo sguardo che pareva scorrere sulle sabbie del deserto. Invece, una foglia che ingiallisse su un ramo, una piuma che si impigliasse ad una tegola, non gli sfuggivano mai: non c’era tafano sul dorso d’un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di fico spiaccicata sul marciapiede che Marcovaldo non notasse, e non facesse oggetto di ragionamento, scoprendo i mutamenti della stagione, i desideri del suo animo, e le miserie della sua esistenza.

Così un mattino, aspettando il tram che lo portava alla ditta Sbav dov’era uomo di fatica, notò qualcosa d’insolito presso la fermata, nella striscia di terra sterile e incrostata che segue l’alberatura del viale: in certi punti, al ceppo degli alberi, sembrava si gonfiassero bernoccoli che qua e là s’aprivano e lasciavano affiorare tondeggianti corpi sotterranei.

Si chinò a legarsi le scarpe e guardò meglio: erano funghi, veri funghi, che stavano spuntando proprio nel cuore della città! A Marcovaldo parve che il mondo grigio e misero che lo circondava diventasse tutt’a un tratto generoso di ricchezze nascoste, e che dalla vita ci si potesse ancora aspettare qualcosa, oltre la paga oraria del salario contrattuale, la contingenza, gli assegni familiari e il caropane.

L’incipit di Marcovaldo nello stile di Italo Calvino

Bellissimo questo incipit, che ci porta in una città mai nominata ma che potremmo catalogare come “capoluogo industriale del Nord” e tratteggia il personaggio di Marcovaldo, uomo di fatica di una non meglio precisata ditta, con occhio attento a ciò che nessun altro cittadino nota.

Alla vista dei funghi, le cui spore sono doni portati dal vento in uno striminzito e arido pezzo di terra in mezzo all’asfalto, lui trasale e pare che abbia trovato un tesoro.

Così è lui, un povero diavolo, un contadino sempliciotto costretto alla vita di città, un pesce fuor d’acqua che in ogni capitolo scruta i segni della stagioni, percepisce un cambiamento, prende un abbaglio e ne esce deluso.

Il linguaggio, lo stile, le immagini evocate riportano a tempi passati, quasi in bianco e nero, a un momento storico nel quale è ancora evidente il divario tra la cultura rurale e quella urbana e industriale.

Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di città”.

Sembra il linguaggio delle fiabe, e anche la struttura narrativa, nella sua semplicità, pare suggerirlo. Eppure non lo si può catalogare come un libro per l’infanzia, o l’adolescenza, perché a qualsiasi età lo si scopra rimane una lettura ricca di astrazioni e di suggestioni, che Calvino comunque non dichiara, limitandosi a stuzzicare il lettore senza mai esporsi.

È una critica della società moderna? Forse, ma anche dell’illusione del passato, dell’idea che nella vita rurale e semplice risieda un paradiso perduto.

Difficile non lasciarsi ispirare dalla sua scrittura e non amare Italo Calvino, uomo di grande cultura e sensibilità, uno speleologo dell’animo umano.

Vedi anche Raymond Queneau

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